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UNA TESTATA UNICA PER LA RAI ?


di Andrea Melodia (presidente UCSI, Vice Presidente Infocivica) - 7 luglio 2011

Contributo alla discussione

Quando pochi mesi fa presentai nella sala degli arazzi di viale Mazzini il libro postumo di Emilio Rossi E' tutto per stasera , dissi che non si fa un servizio alla società, non si rispettano il pluralismo e la democrazia attraverso la contrapposizione programmatica di opposti punti di vista. Lessi queste parole di Rossi, scritte nel 1975, quando si discuteva la legge di riforma dalla quale uscì la divisione obbligatoria delle testate uniche, TV e radio, allora esistenti: “ Lottizzare significa spartire l'ex campo comune: un'aiuola per noi e una per voi, l'una e l'altra sostanzialmente eterodirette, con conseguente svuotamento del potere centrale. Ma c'è di più. Nell''aiuola per voi', vi autorizzo, anzi vi esorto, ad assumere posizioni esplicitamente antagonistiche, vi do licenza di parteggiare, esentandovi in partenza da riguardi verso le ragioni altrui”.

E' giunto il momento di riproporre questa visione anticipatrice, e anche di metterla in discussione e di riportarla all'oggi. Perché se ci fermassimo alla storia di ieri, non ci sono dubbi che proprio il TG1 di Emilio Rossi e il TG2 di Andrea Barbato sono stati esempi di come si possa fare servizio pubblico di alto livello anche rappresentando posizioni politiche dichiaratamente antagoniste.

E' invece la degenerazione di quel modello di pluralismo quello che oggi abbiamo di fronte. Dalla lottizzazione, condizione che paradossalmente è stata da qualcuno difesa e rivalutata, si è passati alla balcanizzazione della informazione RAI, spesso gestita nelle forme più virulente al di fuori delle Testate giornalistiche. E comunque siamo di fronte a scelte gestionali che sempre meno rispettano l'autonomia dell'azienda, la sua cultura professionale, perché nascono e si sviluppano in corpi estranei, in assoluta mancanza di trasparenza, senza neppure rispettare le istituzioni politiche.

Qualcuno penserà: siamo alle solite, si vuole difendere il "partito RAI". Ma quale partito? Io non voglio certo difendere i gruppi di potere, più o meno legittimi, che operano - a volte tramano - nell'azienda. Voglio difendere il valore costituzionale del servizio pubblico, in qualche modo la sua sacralità al servizio dei cittadini, e quindi il valore di una missione e di una cultura del servizio pubblico finalizzata a questa missione.

Allora, se questi sono gli obbiettivi, si tratta di progettare un percorso, che evidentemente comporta un'ampia virata rispetto alle pratiche degli ultimi anni. Anzi, per essere più chiari, degli ultimi decenni: perché nessuno pensi che la RAI di oggi sia figlia di uno specifico orientamento politico governativo. E' invece figlia di qualcosa che è cominciato verso la fine degli anni '80, cioè prima di Tangentopoli, e che è continuato in tutti questi anni come effetto della incapacità dell'azienda, pressata dalla concorrenza, a costruire un percorso interno di salvaguardia delle professioni creative, nelle reti e nelle testate, conservando una cultura capace di esercitare la missione di servizio pubblico nel nuovo ambiente competitivo.

In questa incapacità di fondo si sono alternate, con pari responsabilità sostanziali, gestioni di sinistra e gestioni di destra. Credo che in questa pratica autolesionista l'azienda abbia avuto molte scusanti ma anche molte responsabilità. Non è questa la sede per l'analisi storica. Qui dobbiamo discutere, almeno dal mio punto di vista, su cosa sia possibile fare per cambiare strada.

Ci sono problemi di fondo, molto complicati, che sono di natura politica e di natura culturale. Deve cambiare l'atteggiamento della politica: si deve capire perché è ancora necessario un servizio pubblico nel mondo della comunicazione. La sinistra e la destra devono convincersi che il servizio pubblico non realizza né la propria legittimazione né la propria illegittimità nell'opporsi a Berlusconi (e forse neppure a Mediaset, al di là di una corretta concorrenzialità), ma nel ricostruire la coesione sociale, il rispetto per la politica, il gusto per la cultura; perché che il servizio pubblico correttamente gestito serve alla qualità della comunicazione, della politica e della società intera. Tutti hanno da guadagnare nel farlo funzionare bene, se si ha a cuore il benessere di tutti e la crescita del paese.

Io non voglio neppure perdere tempo a discutere con chi sostiene che il servizio pubblico vada abolito. Dico solo che oggi gli analisti della comunicazione persino negli Stati Uniti guardano con attenzione alla funzione del servizio pubblico. I suoi nemici dichiarati, in una situazione come quella del nostro paese, mi sembrano animati dal cupio dissolvi .

Come fare per ridargli vita? In questi anni si è discusso animatamente dei problemi di governance , di assetti dirigenziali e di rapporto della RAI con la politica. E' evidente che si tratta di problemi da risolvere. Però finora non sono stati risolti, forse perché troppo intreccianti con lo scontro politico. Forse non bisogna partire solo da lì, ma è chiaro che la politica deve riuscire a dare all'azienda una guida il più possibile snella, concentrata, non parlamentare, scelta con criteri britannici. Sarà molto interessante ascoltare la descrizione delle attuali linee guida della BBC.

Proprio l'esempio della BBC ci ha dato l'idea che forse, prima ancora di intervenire sui criteri di governance , occorre prospettare cambiamenti forti nella struttura aziendale, a cominciare dall'informazione.

L'idea di proporre la testata unica, o quanto meno un sostanziale compattamento unitario, non è soltanto una provocazione o un sasso nello stagno. E' una idea radicale e forte, che può e deve essere presentata in regime bipartisan come volontà concreta di ricostruire un servizio pubblico riconoscibile e autorevole, non soggetto alle forze politiche. Non si unifica per censurare, ma per liberare dai lacci esterni, per essere in ogni momento il più possibile pluralisti e rispettosi, professionali, al servizio del cittadino. Si conservano le necessarie differenze di canale, di target, e di tecnologia trasmissiva, non ci si tappa la bocca ma ci si autolimita nella riconoscibilità ideologica, perché la RAI è di tutti.

E' anche un'idea che va incontro alla esigenza aziendale di un ricompattamento funzionale dei suoi quadri direttivi giornalistici. Immagino che questo dispiaccia a molti colleghi e certamente potrà creare problemi sindacali. Ma sono certo che FNSI e USIGRAI possano comprendere che un compattamento unitario, almeno a medio e lungo termine, va nell'interesse del giornalismo e dei giornalisti della RAI.

Altre considerazioni che rafforzano questa linea riguardano il modo di essere e di fare televisione oggi, le sue trasformazioni, le sue carenze. In grande sintesi ne indico tre.

Primo punto: il canale all news . E' evidente che il futuro dell'informazione TV (e anche radio) si gioca su questo fronte. Ed è dunque il canale all news al centro della produzione come fornitore di contenuti: il newsgathering . E lì va riportata la responsabilità di tutta l'informazione, anche favorendo forme ibride, ma controllate, di collaborazione tra giornalisti e autori nelle soft news e nell' infotainment . Ma come farlo se ciascuno va per conto suo sentendosi investito dall'alto?

Secondo punto: il territorio, l'informazione di prossimità. Credo che questa sia tra le grandi sconfitte della RAI negli ultimi 25 anni, non certo per colpa dei TGR, ma per come questi sono stati tenuti relegati su una sola rete e separati dal resto dell'informazione. Mentre in tutto il mondo l'informazione di prossimità diveniva centrale, in Italia la RAI la ha marginalizzata, Mediaset non ci ha pensato proprio, e le reti locali - salvo poche eccezioni - non hanno brillato per professionalità. Quanto lavoro resta da fare in questo campo! Anche qui, mi auguro che una gestione unitaria dell'offerta informativa possa più facilmente correggere gli errori passati, spesso legati a scontri di potere interni. La proposta di Michele Mezza, che ascolteremo, indica una piattaforma tecnologica innovativa per questo rilancio.

Ultima, più importante di tutti, la questione della trasformazione della televisione in rapporto ai nuovi media. Due giorni fa c'è stato a Roma un interessante incontro dal quale è emersa l'idea della Super TV. In sostanza, si dice, non è Internet che cancella la vecchia televisione generalista, ma è la televisione, in forme rinnovate e attraverso nuovi soggetti, ad appropriarsi progressivamente di Internet, che sempre più diviene lo strumento primario di circolazione del video nelle forme più diverse.

Di fronte a questo innegabile andamento, si può discutere solo, a mio parere, su come si divideranno le quote di mercato tra chi pratica o praticherà il metodo del palinsesto interamente personalizzato e chi continuerà a scegliere uno o più canali elettivi cui affidare, almeno in parte, le proprie scelte. Mi pare evidente che a questi canali elettivi, che continuerei a chiamare generalisti (per il loro bisogno di essere rappresentativi di fasce di popolazione il meno possibile targettizzate), resterà prioritariamente affidato il compito di mantenere il legame sociale, il senso di comune appartenenza, la capacità di rispondere agli eventi, alle crisi più o meno grandi, più o meno vicine che si presentano nella società. Funzioni tipiche di servizio pubblico: non necessariamente canali ad ascolto maggioritario, ma almeno capaci di ottenere un riscontro sociale, anche ottenendo attenzione in crescita nelle situazioni di crisi.

Mi pare evidente che il concetto di canale sia peraltro inadeguato, anche se difficile da sostituire, per rappresentare la futura situazione della convergenza digitale, nella quale i contenuti circoleranno - già circolano - non solo in modo lineare, e in piena crossmedialità. E' dunque evidente che il servizio pubblico deve presidiare paritariamente sia i vecchi sia i nuovi media, non per fare loro concorrenza ma per svolgere fino il fondo il suo compito di stimolo alla qualità dell'offerta e di bussola, di mezzo di orientamento liberamente offerto ai cittadini e ai comunicatori.

Ed è altrettanto evidente, dunque, che il giornalista del servizio pubblico deve essere presente a tutto campo nella alimentazione dei media: continuare a pensare a linee di produzione separate e concorrenziali per i differenti media, ma anche per i differenti siti di appoggio alle testate, mi pare una soluzione destinata al concludersi.

Sapremo trovare nell'azienda, nei partiti, nei sindacati, in parlamento il coraggio e la libertà necessari per affrontare il cambiamento? Sono in parte ottimista, perché credo che la consapevolezza che si debba cambiare stia crescendo anche fuori dalla RAI, e perché le condizioni oggettive dell'azienda, sia in termini di governabilità, sia nella tenuta finanziaria, certo minacciano di collassare. Dunque si avvicina il tempo delle scelte. Quella di chiudere il servizio pubblico sarebbe una soluzione sciagurata. Dunque bisogna incidere profondamente. E sono convinto che si possa proprio cominciare dalle testate.

Grazie per l'attenzione.