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INFOCIVICA - IDENTITA' E DIVERSITA' DELL'EUROPA
1° seminario di approfondimento. La trasformazione della società, la domanda e la nuova missione dei media di servizio pubblico nella società dell'informazione e della conoscenza
Torino Prix Italia – 21 settembre 2010

Parte seconda - RIPROGETTARE L'IDENTITÀ DEI SERVIZI PUBBLICI IN EUROPA. La proposta di Infocivica al Gruppo di Torino


Manlio Cammarata

Direttore InterLex

Sintesi in tempo reale:

Manlio Cammarata ha innanzitutto ricordato come il mondo dei media sta cambiando e sta cambiando anche quella parte del mondo dei media che conosciamo come “servizio pubblico radiotelevisivo”. Che già da qualche anno non è più fatto solo di radio e televisione, ma anche di internet e con i primi esperimenti di servizi innovativi. Non a caso non parliamo più di “televisione”, ma di “media crossmediali”. Tuttavia parlare di servizio pubblico televisivo o anche cross mediale in ambito europeo è particolarmente difficoltoso: innanzi tutto per la grande differenza di impostazioni fra gli Stati Europei; in seconda battuta per l’insufficente azione normativa delle istituzioni comunitarie. Nel ripercorrere, infatti l’evolversi della normativa europea dai timidi passi del 1989 al protocollo di Amsterdam che si è concentrato sui temi spinosi del finanziamento alle emittenti di servizio pubblico, Cammarata ha ricordato il 2007 con la direttiva della “Televisione senza Frontiere” in un contesto completamente cambiato delle telecomunicazioni: la normativa a questo punto introduce la visione dei “servizi di media audiovisivi”, che nel titolo e in parte del testo sostituiscono il termine “televisione”. Purtroppo andando a leggere i passaggi della normativa, la logica è ancora quella televisiva. A cui si aggiunge la difficoltà della distinzione fra servizi lineari e non lineari che purtroppo tendono ad oggi a sovrapporsi.
Contemporaneamente l’Italia vive dal dopoguerra ad oggi il balletto del controllo sulla televisione da parte del Governo. E mentre nel 2004 la legge Gasparri prevedeva la privatizzazione (mai avviata) della Rai e, nella fase transitoria, il ritorno del controllo del servizio pubblico nelle mani del Governo; l’assimilazione della direttiva europea, con il passaggio formale dalla “televisione” ai “servizi di media audiovisivi”, diventava l’occasione per stringere il controllo sull’internet, applicando ai servizi televisivi in rete regole simili a quelle della televisione tradizionale, con un aggiunta di oneri soffocanti ad operatori che non possono permetterseli. Allontanando definitivamente però il nostro Paese da una visione europea del servizio pubblico.

Continua la sintesi in tempo reale

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Scaletta seguita da Manlio Cammarata nel suo intervento:

Lo stato della discussione in Europa e il quadro normativo attuale

1. Premessa

Siamo nell’ambito di una grande manifestazione dedicata alla televisione e discutiamo di servizio pubblico. E’ del tutto normale. Può sembrare curioso, però, che nel titolo di questo seminario e nel tema più generale del nostro studio non ci sia la parola “televisione”. Parliamo invece di “media” e usiamo il brutto (ma efficace) neo-aggettivo “crossmediale”. Ma è l’approccio giusto, se guardiamo a un futuro relativamente prossimo e alla realtà che si sta delineando nel mondo dell’informazione e della comunicazione. D’altra parte, la più recente direttiva europea che riguarda la televisione non ha più la parola “televisione” nel titolo, sostituita dall’espressione “media digitali”.

Dunque il mondo dei media sta cambiando e sta cambiando anche quella parte del mondo dei media che conosciamo come “servizio pubblico radiotelevisivo”. Che già da qualche anno non è più fatto solo di radio e televisione, ma anche di internet e con i primi esperimenti di servizi innovativi. Dunque quello che ci interessa è l’evoluzione del servizio pubblico nel contesto crossmediale. Evoluzione, non certo estinzione, perché le ragioni che hanno portato alla sua nascita, nell’intervallo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, non sono venute meno. Sono solo cambiate, in parte.

Ma parlare di servizio pubblico televisivo (o crossmediale) in ambito europeo non è facile. Si oppongono due ordini di motivi: il primo è la grande diversità di impostazioni che si incontra tra i servizi pubblici degli Stati europei; il secondo è l’insufficiente azione normativa delle istituzioni comunitarie, che non hanno ancora affrontato in forma sistematica la definizione e i compiti del servizio pubblico nell’ambito comune.

Sul primo punto basta considerare quale distanza separi la concezione del servizio pubblico in due Paesi come il Regno Unito e l’Italia: nel Regno Unito ha come cardine l’indipendenza dalla politica e il suo ordinamento è volto a rendere effettivo il principio; in Italia il servizio pubblico è nato e continua ad essere gestito sotto il controllo della sfera politica e in particolare dei governi di tempo in tempo in carica. Naturalmente ci sono situazioni intermedie, come quella tedesca, in cui il servizio pubblico è sotto il controllo dei Laender e il governo federale svolge una funzione di coordinamento.

2. L’evoluzione normativa europea

Il secondo punto, relativo agli sviluppi della normativa comunitaria visti dall’Italia, è il tema principale di questo intervento. Il primo atto rilevante a livello europeo non è troppo lontano nel tempo: è la direttiva “Televisione senza frontiere” (89/552/CEE del Consiglio, del 3 ottobre 1989, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti l'esercizio delle attività televisive). Non è un atto particolarmente innovativo, perché si limita a classificare le attività televisive come “servizi” ai sensi del Trattato dell’Unione europea, a prevedere che le emittenti riservino alle produzioni europee la maggior parte del tempo di trasmissione (con una riserva del 10 per cento per i produttori indipendenti) e pone una serie di limiti per la pubblicità. Inoltre regola i rapporti reciproci tra le emittenti di diversi Stati, giustificando la “televisione senza frontiere” del titolo.

Devono passare ben otto anni prima di un aggiornamento delle disposizioni dell’89. Nel frattempo si verificano grandi cambiamenti: dopo il documento di Clinton e Gore del 1994 sulle “autostrade dell’informazione”, l’Europa cerca di mettersi al passo con una serie di iniziative sulla “società dell’informazione”, culminate nel “Rapporto Bangemann” e nel G7 di Bruxelles del 1995.
Degli sviluppi delle tecnologie tiene contro la direttiva 97/36/CE, che modifica la 89/552 e ha come punti centrali la competitività dell’industria audiovisiva europea, la libera circolazione e la concorrenza, i principi di giurisdizione e nuove regole sulle televendite e la pubblicità. Considera anche il principio del libero accesso ai programmi di grande interesse pubblico e introduce regole per la protezione dei minori. Nulla di rilevante per quanto riguarda il servizio pubblico.

Che è invece oggetto, pochi mesi dopo, del “Protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati membri”, allegato al Trattato di Amsterdam. Ma il protocollo si limita a stabilire che i finanziamenti alle emittenti di servizio pubblico per lo svolgimento dei loro compiti non costituiscono “aiuti di Stato” vietati dal Trattato, a condizione che non turbino il mercato. La definizione e l’organizzazione del servizio pubblico sono esplicitamente lasciate ai singoli Stati: manca così un qualsiasi riferimento normativo di matrice europea a un servizio pubblico radiotelevisivo.

Nel novembre del 2001è pubblicata la “Comunicazione della Commissione relativa all'applicazione delle norme sugli aiuti di Stato al servizio pubblico di radiodiffusione”. Ma nella comunicazione si afferma con chiarezza che neanche una esauriente verifica dell’applicazione delle regole sugli aiuti di stato alla radiotelevisione pubblica è possibile in assenza di una definizione ufficiale di “servizio pubblico” in ambito europeo (paragrafi 32 e 33).

3. La direttiva Servizi di media audiovisivi senza frontiere del 2007 e la situazione in Italia

A dieci anni di distanza dal Protocollo di Amsterdam nuove disposizioni intervengono nel solco aperto dalla direttiva “Televisione senza frontiere”. Ma il contesto è profondamente cambiato, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni, che ora è strettamente intrecciato con quello della televisione.

La regolamentazione europea delle TLC ha subito un’evoluzione più sostanziale: dalle direttive 90/387 e 90/388, che avviavano la liberalizzazione del settore, al “pacchetto” di quattro direttive del 2002 che prendono atto della “convergenza” e ridisegnano l’intero quadro regolatorio, con alcuni aspetti del mercato radiotelevisivo e dei servizi internet inseriti nel contesto del sistema delle telecomunicazioni.
Dunque la direttiva 65/2007 sui “servizi di media audiovisivi” che modifica ancora una volta la normativa “madre” del 1989 e introduce la visione dei “servizi di media audiovisivi”, che nel titolo e in parte del testo sostituiscono il termine “televisione”. Quest’ultima resta comunque al centro dell’interesse del legislatore comunitario, anche se la nuova distinzione tra i servizi televisivi “lineari” e “non lineari” considera i secondi nell’ambito dei nuovi media digitali più che in quello della televisione tradizionale.

E un cambiamento di prospettiva molto importante, anche se non del tutto condivisibile in alcuni passaggi. Ma forse troppo prudente, se si paragona la velocità del progresso tecnologico e delle sue ricadute nel mondo dei media con la lentezza dell’innovazione legislativa a livello comunitario. Alla quale si aggiungono, a volte, le resistenze dei legislatori nazionali. E’ il caso dell’attuazione della direttiva in Italia, che ha comportato molte modifiche al Testo unico della radiotelevisione, in vigore dal 2005. Esso è figlio della “legge Gasparri” del 2004 e porta anche il carico non trascurabile di molte disposizioni che risalgono a decenni addietro. Ma per l’aspetto che ci interessa di più, quello del servizio pubblico, rende più invasivo il controllo del governo sul servizio pubblico.

E’ forse utile ricordare che in Italia la radio nasce come impresa concessionaria nel 1924, sotto lo stretto controllo del governo fascista, che negli anni ’30 ne farà uno strumento di propaganda politica. Dopo la guerra e la caduta del fascismo la situazione cambiava di poco, con il controllo del sistema – e della programmazione – che passava dal Ministero della cultura popolare al Ministero delle poste e telecomunicazioni. La radio non era più uno strumento di propaganda di regime, ma in ogni caso l’indirizzo e la sorveglianza erano nelle mani del governo.

Negli anni ’70 la situazione cambiava con la comparsa prima delle radio e subito dopo delle televisioni private, fortemente osteggiata dalla maggioranza politica di allora, con il sostegno di interpretazioni molto conservative della Corte costituzionale. Però nel 1974 una fondamentale sentenza della Corte (n. 225) stabiliva che il controllo della radiotelevisione dovesse passare dal Governo al Parlamento, in quanto rappresentativo della comunità nazionale (mentre la sentenza n. 226 apriva la strada alle televisioni private via cavo). Con la riforma del 1975 la prescrizione della Corte era rispettata e l’indirizzo e il controllo della radiotelevisione pubblica erano affidati alla commissione parlamentare istituita nel 1947, opportunamente rinnovata nella struttura e nei compiti.

Ma nel 2004 la legge Gasparri prevedeva la privatizzazione (mai avviata) della Rai e, nella fase transitoria, il ritorno del controllo del servizio pubblico nelle mani del Governo. Infatti, secondo l’articolo 20, comma 9, stabilisce che due dei sette membri del consiglio di amministrazione della concessionaria (fra i quali il presidente) sono nominati dal socio di maggioranza, che è il Ministero dell’economia e delle finanze, cioè il Governo. Con la conseguenza che, anche se per un’ipotesi improbabile la commissione parlamentare eleggesse tre rappresentanti della maggioranza e quattro della minoranza, l’equilibrio del CDA penderebbe comunque dalla parte del Governo.

In questo quadro l’attuazione della direttiva è stata da una parte un atto dovuto, con il passaggio formale dalla “televisione” ai “servizi di media audiovisivi”. Ma dall’altra l’occasione per stringere il controllo sull’internet, applicando ai servizi televisivi in rete regole simili a quelle della televisione tradizionale. Infatti il combinato disposto della definizione di “servizio di media audiovisivo” (art. 2) con l’art. 22-bis sottopone anche le web-tv a un regime di autorizzazione. Il che appare contrario alla direttiva recepita, e in particolare al considerando n. 15. E questo allontana in nostro Paese da una visione europea del servizio pubblico, televisivo o crossmediale che dir si voglia. Un’occasione per rivedere la rispondenza del nostro ordinamento al contesto europeo sarà l’attuazione della direttiva 2009/140, che aggiorna le direttive del 2002 sulle telecomunicazioni.